Siamo qui, nell’ombra densa di un presente che sa di cenere. Guardatevi attorno. Non c’è più la società, c’è un ammasso frenetico di solitudini che si sfiorano, tenute insieme solo dalla colla corrosiva di un denaro elevato a divinità unica. E il tempio di questa divinità è una stanza degli specchi, dove l’immagine riflessa è la più sfacciata, la più nuda delle verità: siamo in un’epoca di corruzione non solo economica, ma dell’anima. Dove sono le idee? Dove sono gli ideali che un tempo incendiavano le piazze? Resta solo un palcoscenico di figure che si muovono senza più un copione, ma solo una costante, nauseante trasformazione. La politica non è più arte di governo, non è servizio, ma è uno sport di sopravvivenza, un balletto cinico di maschere che cadono e si ricompongono con il solo scopo di restare a galla. E al vertice di questo dramma, la classe dirigente, sia essa politica o culturale, ha svenduto la propria funzione. Non c’è più etica, non c’è traccia di quei valori che dovrebbero essere il sale della guida. Tutto è merce. L’onore è un lusso che nessuno può permettersi, perché il prezzo da pagare, la rinuncia al tornaconto immediato, è troppo alto in un mondo dove la bilancia pesa solo l’oro. Il dolore più acuto è guardare i nostri giovani. Sono nati in questo deserto morale e ne portano i segni: una fragilità che non è dolcezza, ma disorientamento. Come possono sviluppare una spina dorsale quando sono nutriti solo da illusioni digitali e dalla promessa vuota di una fama effimera? Sono fragili perché il cemento su cui poggiano è fatto di menzogne e debiti. Eppure, c’è stato un tempo in cui la storia non era solo una sfilata di cinismo. Ricordate gli anni ’60. Non erano perfetti, no, ma erano intrisi di una febbre, di una luce negli occhi. Quella era la generazione della speranza che si faceva progetto, della costruzione di idee come mattone per il domani. Avevano una visione di futuro così potente da infrangere le vecchie certezze, un’energia che credeva nel potere della collettività e della trasformazione. Dove è finito quel fervore? Quel senso che le cose potevano cambiare se solo si decideva di sporcarsi le mani con l’ideale? La loro eco ci grida addosso: eravamo capaci di sognare in grande, di lottare per qualcosa che andasse oltre l’interesse individuale. E noi, oggi, non siamo meno di loro. Non parliamo in astratto. Questa crisi non è solo un fenomeno nazionale, ma si riflette nei nostri territori, nelle nostre comunità. A Monteforte Irpino, Caivano e Quindici il disagio sociale, il disincanto e la sfiducia verso le istituzioni sono specchi fedeli di un malessere più profondo. Qui la politica ha spesso mostrato il volto del trasformismo, incapace di farsi garante dei bisogni reali dei cittadini. Eppure, proprio da questi luoghi può nascere una nuova consapevolezza. La presa di coscienza non è un atto astratto, ma un gesto quotidiano di responsabilità civica. La comunità può e deve farsi sentire: non come massa rassegnata, ma come popolo libero, capace di esigere dignità, etica e rispetto. Se la politica vuole avere un futuro, deve raccogliere questo messaggio e farsene garante, non padrone. La fiducia non si compra con promesse vuote, ma si riconquista con coerenza, con il coraggio di dire dei no al degrado e dei sì al progresso che non tradisce i valori. Siamo dunque precipitati in un disastro sociale, una crisi di significato. Abbiamo perso il senso di comunità, il rispetto per la storia, la fede nel domani. Accettiamo il trasformismo come pragmatismo, l’avidità come ambizione. È tempo di lacerare questo velo di rassegnazione. Non servono lamenti, ma l’azione più semplice e potente che ci sia stata lasciata: il voto. Il prossimo appuntamento con le elezioni regionali non è un gioco di potere locale, è la trincea in cui decidiamo se accettare questo degrado o risorgere. Se le classi dirigenti non hanno etica, siamo noi a doverla imporre. Uomini e donne liberi, a voi l’appello: andate alle urne con la memoria della speranza che fu e l’urgenza di un futuro da salvare. Non lasciate che il vostro silenzio diventi la voce della corruzione. Siate liberi di votare non per il meno peggio, ma per chi incarna un frammento di quell’etica perduta, per chi ha una spina dorsale e un’idea che non sia misurata solo in denaro. La libertà di scelta non è un diritto passivo, è un dovere attivo. Votare è l’atto fondante con cui si dichiara: io non mi arrendo a questo disastro.
di Mat. Lib.


