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La demenza digitale e Leopardi.

In ATTUALITA', INSERTI ATTUALITA'
Gennaio 18, 2024
La riflessione -

Circa dieci anni fa il neuroscienziato tedesco Manfred Spitzer introdusse il termine “Demenza digitale” per indicare come la nuova tecnologia ci rende stupidi, e tentò di dimostrare la degenerazione cognitiva provocata dall’abuso ossessivo dei social.

Il concetto viene richiamato da un noto giornalista scrittore che è un insegnante di materie letterarie, Fabrizio Coscia, che ha speso le sue energie e qualità dedicandosi ai ragazzi e ai giovani, anche in ambienti con evidente disagio sociale, cercando di far conoscere la letteratura e la poesia, la cultura del bello, per aiutare i giovani a migliorare la propria individualità.

In un suo recente articolo, pubblicato su Il Mattino venerdì 12 gennaio u.s, il prof. Coscia esprime tutta la sua amarezza dichiarando: ma ha senso oggi insegnare la poesia?

Sul banco degli accusati il redattore dell’articolo pone la (in)cultura, in questo caso, provocata dalla digitalizzazione dell’universo. Egli si sente frustrato perché non riesce più a far interessare i suoi giovani allievi, a farli emozionare, grazie ad una poesia, una lirica, un brano letterario.

I giovani appaiono distratti, disinteressati, e restano solo in attesa che “il tormento” finisca presto per tornare a smanettare sul loro cellulare.

Anche in questo caso, la tecnologia e i nuovi strumenti mediatici sono rappresentati come il demonio, la causa di tutti i mali.

Il giorno successivo, sabato 13 gennaio 2024, sullo stesso quotidiano “Il Mattino”, il prof. Guido Trombetti, rettore emerito dell’Università Federico II afferma, invece, che la poesia snobbata non è colpa degli iphone, e fa qualche proposta atta a trovare il sistema di stimolare il piacere della lettura, e propone, ad esempio, di inserire al primo anno di tutti i corsi di laurea un corso di “invito alla lettura”.

La coercizione alla lettura, come il solfeggio per i giovani musicisti, forse è il classico rimedio peggiore del male. Non si tratta assolutamente di rifiutare l’importanza dell’insegnamento accademico, ma introducendo un altro obbligo non si può raggiungere alcun risultato se non un ulteriore allontanamento, magari dei pochi predisposti alla lettura.

Il problema sta nel cercare la causa del corto circuito relazionale che allontana i giovani e soprattutto i giovanissimi dalla lettura e dalle tradizionali forme di acculturamento scolastiche. Il corto circuito è probabilmente costituito da un linguaggio differente, un modo differente di esprimersi, se non addirittura una visione complessiva e diversa della realtà.

Un giovane ed una persona anziana non si intendono perché parlano diversamente e non hanno il desiderio di studiare la lingua dell’altro.

Quelli con un pò di anni sulle spalle hanno dimenticato che, seppure provavano emozione ed interesse per Giacomo Leopardi, magari si annoiavano con la lettura di altri poeti, ed è preferibile non dire nomi altrimenti si scatena l’inferno con le accuse di ignorante, e magari peggio.

La cultura tra virgolette, l’accademia, dovrebbero avere l’umiltà di privilegiare l’ascolto piuttosto che l’immediata trasmissione del sapere. Ascoltare i diretti interessati all’apprendimento, cercare di capire la loro lingua, i desideri e le intenzioni.

Senza dimenticare che il processo che provoca le emozioni è estremamente personale, così come è personale la valutazione dei sentimenti.

Potremmo magari scoprire che i giovani e i giovanissimi rifiutano la realtà attuale per come la nostra generazione l’ha costruita. Una realtà caratterizzata da ingiustizie sociali enormi, guerre, falsità. Più o meno coscientemente potrebbero i giovani non credere alla nostra idea di bellezza perché contrasta con quanto è stato e viene realizzato quotidianamente.

La bellezza della poesia e dell’arte potrebbe essere un ulteriore inganno di una società costruita sull’ingiustizia e il disprezzo per le diversità anche e solo di pensiero.

di Domenico Salerno