
In una mossa che ha colto di sorpresa la comunità internazionale e suscitato reazioni di disappunto tra gli alleati storici, il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha ufficialmente revocato l’adesione del suo paese all’accordo globale sulle tasse delineato dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). Nonostante fosse stato raggiunto un ampio consenso internazionale sulla necessità di stabilire una “minimum tax” del 15% per le multinazionali, l’amministrazione attuale ha deciso di isolarsi, preferendo una rotta autonoma che potrebbe avere significative implicazioni economiche globali.
Il fulcro del dissenso di Trump su questo fronte si annida nella sua convinzione che tali accordi limitino la sovranità fiscale degli Stati Uniti, ed ha esplicitamente ordinato al Dipartimento del Tesoro di prepararsi a implementare misure punitive contro quei Paesi che osano imporre tassazioni “extraterritoriali” sulle imprese americane. Questa decisione segue la linea di pensiero repubblicana, che predilige una minor pressione fiscale per le imprese, e riecheggia le promesse elettorali di Trump di proteggere l’industria nazionale da obbligazioni ritenute eccessive.
Questa nuova direttiva ha suscitato il chiaro rammarico di Valdis Dombrovskis, Commissario UE all’Economia, che durante un’intervista ha ribadito il suo disappunto evidenziando come l’Unione Europea continuerà a rispettare gli impegni presi in ambito OCSE e rimanga aperta al dialogo. L’Unione, conscia delle potenziali ripercussioni di questa unilaterale marcia indietro americana, cerca di mantenere ferme le posizioni condivise all’interno del framework internazionale.
Andrzej Domański, attuale Ministro dell’Economia della Polonia e detentore della presidenza di turno dell’UE, ha confermato che non vi è stata alcuna discussione tra i ministri delle finanze dell’UE su una possibile revisione dell’approccio alla direttiva, malgrado le minacce di ritorsioni da parte degli USA. Questo rivela una scissione tra l’approccio europeo, che punta alla solidarietà e al mantenimento degli accordi quanto più possibile inclusivi e condivisi, e la politica statunitense recentemente adottata.
L’accordo OCSE non era soltanto un tentativo di standardizzazione fiscale ma rappresentava un significativo progresso nella lotta contro l’elusione fiscale da parte delle grandi corporazioni, che spesso sfruttano loophole e diversità legislativa per minimizzare i propri oneri fiscali. Il cosiddetto “secondo pilastro” dell’accordo, che propone soglie minime di tassazione del 15% per evitare che i profitti delle multinazionali siano trasferiti artificialmente in giurisdizioni a bassa tassazione, è visto come uno strumento cruciale per un’economia globale equa e trasparente.
Le ripercussioni della decisione di Trump potrebbero estendersi oltre i confini economici, influenzando la percezione internazionale degli USA come partner cooperativo in accordi multilaterali. Inoltre, la potenziale instaurazione di tariffe punitive verso quei paesi che seguono le linee guida OCSE potrebbe innescare una catena di reazioni che convergerebbero verso una guerra commerciale, con risvolti imprevedibili.
In conclusione, il passo indietro dell’amministrazione Trump non solo solleva questioni su stabilità e coesione nelle politiche fiscali globali, ma anche palesa una frattura nella visione della globalizzazione e nella collaborazione internazionale, sottolineando la crescente tendenza verso un nazionalismo economico che potrebbe definire i futuri scenari geopolitici e commerciali mondiali.