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L’essenza dell’architettura è il dialogo: trent’anni di Corvino + Multari, tra città, arte e memoria.

In occasione di questo importante traguardo editoriale e professionale, abbiamo incontrato l’architetto Giovanni Multari per riflettere sul senso di questo percorso.

Il prossimo 10 maggio, nella suggestiva veranda neoclassica di Villa Pignatelli a Napoli, sarà presentata la monografia 1995-2025 Corvino + Multari. L’architettura dialoga con la città, edita da Marsilio Arte e curata da Pierre-Alain Croset. Un volume che ripercorre trent’anni di attività dello studio fondato dagli architetti Vincenzo Corvino e Giovanni Multari, attraverso un racconto dialogico fatto di progetti, concorsi, riflessioni e scelte etiche. Sei capitoli per raccontare un’architettura che ascolta i luoghi e le comunità, che si confronta con il costruito e con l’invisibile, che sceglie l’essenzialità come cifra di dialogo con il presente. In occasione di questo importante traguardo editoriale e professionale, abbiamo incontrato l’architetto Giovanni Multari per riflettere sul senso di questo percorso, sull’identità di uno studio che ha fatto dell’ascolto e della responsabilità urbana la sua cifra progettuale, e sul ruolo dell’architetto oggi, tra memoria, trasformazione e futuro.

Architetto, la monografia “1995-2025” racconta trent’anni di intensa attività progettuale dello studio di architettura “Corvino + Multari”, quali criteri avete seguito nella selezione dei progetti pubblicati, c’è un filo conduttore che li lega?

Il saggio monografico, edito da Marsilio Arte, è stato curato dal professore Pierre-Alain Croset, che attraverso un dialogo costruito nel corso di un anno circa di lavoro, ha selezionato i fatti, i progetti e le questioni emerse dalle lunghe conversazioni. Il filo conduttore che lega la narrazione dei nostri trenta anni di attività è certamente nella scelta di avere sei temi che attraversano le nostre esperienze e che costruiscono i 6 capitoli del libro. Capitoli animati dal dialogo e dalla selezione dei progetti, presentati in forma di schede, che il curatore ha scelto tra progetti realizzati, progetti in corso di realizzazione, concorsi vinti e concorsi persi.

Il titolo dell’incontro “L’architettura dialoga con la città” – è evocativo e ambizioso. In che modo il vostro lavoro riesce a instaurare questo dialogo tra architettura e contesto urbano?

Il titolo dell’incontro, che è il titolo del libro, Corvino + Multari, l’architettura dialoga con la città, come spesso accade, è arrivato nelle ultime settimane su proposta di Pierre-Alain Croset. Concordo sulla idea che è un titolo evocativo ma allo stesso tempo ambizioso, ma questa è stata la lettura che il curatore ha voluto conferire alla ampia indagine e ricerca condotta sul nostro lavoro. Scrive Croset “Sia negli interventi di restauro, riuso e completamento dell’esistente, che rappresentano una parte consistente della loro opera, sia negli edifici nuovi come scuole, residenze, chiese, impianti sportivi, centri commerciali e uffici, la loro architettura trae sempre origine da un’interpretazione critica del contesto “.

Napoli è stata, fin dall’inizio, il vostro laboratorio progettuale, che ruolo ha avuto la città nella formazione della vostra identità architettonica? E quanto continua a influenzare il vostro approccio oggi, anche in progetti lontani geograficamente?

Napoli rappresenta certamente l’origine di tutto e ancora oggi è, come tu dici, il nostro laboratorio progettuale. Dagli anni della formazione nella Facoltà di Architettura della Federico II, Napoli è senza dubbio il principale riferimento, il luogo dell’apprendimento continuo e costante, una esperienza decisiva nel nostro percorso professionale. Napoli apre lo sguardo, ti impone di vedere le cose in profondità, di andare alla essenza delle cose senza rimanere sulla superfice. Napoli ha costruito la nostra consapevolezza, la nostra capacità di ascolto, la nostra attitudine alla lettura e successiva interpretazione. Un bagaglio, una cassetta di attrezzi, che ci accompagna anche quando siamo lontani da Napoli. Tutto questo lo dobbiamo anche ad Alberto Izzo, il professore con cui abbiamo collaborato all’inizio della nostra carriera, il professore con cui mi sono laureato, il nostro maestro.

L’esperienza del restauro del Grattacielo Pirelli a Milano ha segnato una tappa fondamentale per lo studio, come si affronta un progetto tanto simbolico senza tradirne la memoria e al tempo stesso portandolo nel presente?

L’esperienza del grattacielo Pirelli, mi piace molto questa tua espressione, rappresenta, credo, lo snodo principale di questi trent’anni. Non è stato solo un lavoro, un progetto, un restauro, ma molto di più. L’incontro con Giò Ponti e con la sua idea di architettura ci ha offerto l’opportunità di una vera e propria esperienza, che ha indagato le dimensioni della grande architettura del secondo novecento. Ed è assolutamente fondamentale qui ricordare quanto Ponti scriveva nel 1957 in Amate L’Architettura: “Dico spesso: «obbedire all’edificio» (cioè all’architettura). Ciò mi conduce ad addentrarmi in un argomento che mi è caro, quello di considerare la natura veramente appassionante di quei rapporti singolari che ad un certo momento insorgono – è la vera parola – fra l’opera in progetto e chi la sta progettando; rapporti che, se obbediti – eccoci al punto – conducono vantaggiosamente, e difilato, a visioni generali e lucide sulla architettura. Ho detto «vantaggiosamente» perché questi rapporti tendono felicemente a rendere gli architetti subordinati all’opera, ad obbedirle, il che, si sappia, è più che mai favorevole alla buona architettura, la quale allora si va manifestando sia dalle esigenze che esprime l’opera stessa, quanto nello spirito degli architetti …. Mi sono riferito nell’orientare su questa via i miei pensieri, anche all’edificio Pirelli, perché esso me li va ancora una volta confermando e chiarendo, attraverso l’episodio che noi tutti suoi progettisti andiamo vivendo …. Le ore più belle dedicate a questo edificio sono quelle che ci raccolgono tutti (non è vero Valtolina e Dell’Orto, Fornaroli e Rosselli, Nervi e Danusso?) a ragionare attorno ad esso, ed è (e sarà) l’edificio a renderci sempre tutti concordi “. È stata questa la guida del nostro lavoro di restauro, ascoltare l’edificio, un edificio simbolico del secondo novecento, testimone di quella cultura politecnica che tra la fine degli anni 50 e gli inizi degli anni 60 andava affermandosi a Milano. L’attualità a cui fai riferimento, ovvero la tua domanda, “come si affronta un progetto tanto simbolico senza tradirne la memoria e al tempo stesso portandolo nel presente?”, trova ancora una volta risposta nelle parole di Giò Ponti che in una intervista per la rai, molti anni dopo la costruzione del Grattacielo, conservata negli archivi di rai teche, dice: “l’edificio Pirelli è un edificio giovane, ed è come se fosse stato fatto oggi, perché è un edifico essenziale e l’essenzialità è una virtù che non si può superare”. Comprendere tutto questo, averne consapevolezza dopo aver attentamente studiato ed approfondito ogni aspetto della costruzione, ha dato vita ad un processo, direi virtuoso, al quale, oltre a noi, hanno collaborato, e dato il loro fondamentale contribuito, numerosi esperti con i quali è stato possibile mettere in opera l’idea della conservazione e del minimo intervento per un edificio contemporaneo al pari di un edifico antico.

Nella vostra produzione emerge spesso l’attenzione per il rapporto tra arte e architettura, cosa significa per voi progettare spazi che possano accogliere o integrarsi con l’arte contemporanea?

Il rapporto con l’arte contemporanea e di conseguenza con gli artisti, ha da subito accompagnato i nostri progetti. Un’arte intesa sempre come dispositivo integrato al progetto, concepito nello stesso tempo della ideazione architettonica ed integrato all’opera nel suo complesso. È stato così per il nostro primo progetto a piazza dei Bruzii, a Cosenza, la mia città natale, con Mimmo Paladino, e trent’anni dopo sarà ancora così, sempre con Mimmo Paladino e non sarà un caso, nel lavoro di restauro del museo di Capodimonte a Napoli. Sono state molte le esperienze che presentano questa collaborazione tra arte e architettura nel corso degli anni. Vorrei qui ricordare anche quella con Nino Longobardi per il nuovo complesso parrocchiale della diocesi di Lodi a Dresano, in provincia di Milano.

Dai progetti di rigenerazione urbana – come Mantova HUB o l’ex Ospedale Militare di Catanzaro – emerge una forte attenzione alla trasformazione responsabile del territorio, qual è, secondo lei, il compito sociale dell’architetto oggi?

Pur nelle differenze, i progetti di Mantova e Catanzaro hanno probabilmente un comune denominatore: l’ascolto. Nel caso di Mantova, l’ascolto di una comunità che poneva diverse istanze: dalla rigenerazione di un’area periferica e dismessa, alla salvaguardia di un antico cimitero ebraico, alla realizzazione di nuovi spazi pubblici, alla trasformazione di un edificio industriale in una scuola, l’istituto Mantega, alla costruzione di una nuova palestra a disposizione delle scuole, delle associazioni sportive e della città. A Catanzaro, nell’opera di recupero dell’ex Ospedale Militare, sono state ascoltate le esigenze di una importante istituzione, la Procura della Repubblica, che svolge un ruolo fondamentale, in una regione difficile che, per alcune note vicende, è la Calabria. Il progetto oltre ad affrontare questioni di programma e soluzioni tecniche, ha proposto il tema del contesto come primo riferimento, consapevoli che l’intervento andava ben oltre il compito di realizzare la nuova Procura Generale della Repubblica di Catanzaro, ma interessava una parte di città, un suo luogo storico, un quartiere con i suoi luoghi di prossimità. In questo senso, queste due esperienze, raccontano che l‘architettura deve essere attenta alle questioni sociali e alle necessità di una comunità. Da qui riconoscere all’architetto un ruolo o compito sociale mi sembra una forzatura, anche se, e ne sono convinto, in considerazione della mia esperienza di ricerca e didattica, nell’ambito del ruolo che svolgo presso il Dipartimento di Architettura della Università degli studi di Napoli Federico II, oggi l’architetto è più coinvolto nel processo decisionale e quindi assume anche compiti di mediazione e negoziazione che hanno certamente un risvolto sociale.

In trent’anni avete partecipato a numerosi concorsi nazionali e internazionali, che ruolo ha il concorso nella vostra pratica? È ancora, secondo lei, uno strumento efficace per promuovere qualità architettonica nel nostro paese?

La partecipazione ai concorsi è senza dubbio la principale pratica che ha accompagnato il nostro studio in questi trent’anni. Il concorso rappresenta il luogo della ricerca e della riflessione che alimentano costantemente il nostro lavoro. Si fanno molti concorsi ma, come è nelle cose, se ne vincono pochissimi. Amiamo dire, ed è ricorrente che un architetto faccia questa affermazione, che si apprende di più dai concorsi persi che da quelli vinti. Il concorso è senza dubbio la via maestra per la qualità della architettura, e di conseguenza delle nostre città e dei nostri territori. Oggi è in discussione il disegno di legge, n. 1112, proposto, in modo trasversale dai rappresentanti di tutti i partiti politici, presso il Senato della Repubblica, su questi temi. Si discute sulla salvaguardia e la valorizzazione dell’architettura finalizzate alla promozione della qualità architettonica e di disciplina della progettazione. Centrale nel disegno di legge è il ruolo del concorso di progettazione, che la legge definisce come la principale procedura per raggiungere gli obiettivi di qualità architettonica nel nostro paese. Credo sia una iniziativa molto importante e mi auguro che, anche in Italia, finalmente, avremo una legge sull’architettura, al pari di altri paesi europei, in primis, la Francia.

Il lavoro dello studio è stato spesso raccontato attraverso mostre, monografie, video e pubblicazioni, quanto è importante, per voi, l’aspetto narrativo e divulgativo dell’architettura?

Come sempre vale il principio della moderazione nel comunicare il proprio lavoro. Credo che sia un necessario ed utile atto di condivisione ma, come diceva Alberto Izzo, bisogna avere prudenza e comunicare ciò che realmente valga la pena comunicare. Un necessario atto di auto-valutazione e auto-critica che rende più chiaro ed efficace il messaggio che si vuole condividere. Infatti non sono molte le monografie e quella di cui stiamo parlando, che sarà presentata il prossimo 10 maggio 2025 nella veranda neoclassica di villa Pignatelli a Napoli, è la terza in trent’anni. Abbiamo poi nel tempo lavorato alla comunicazione attraverso il nostro sito web e solo più recentemente con i canali social. Siamo presenti e recensiti sulle principali riviste di architettura, sono state prodotte pubblicazioni monografiche su nostre singole opere e partecipiamo a convegni e mostre sia in Italia che all’estero. Alla luce di tutto ciò crediamo che l’aspetto narrativo e divulgativo del proprio lavoro sia importante. A volte faccio una battuta: “se non comunichi il tuo lavoro, lo conosci solo tu !“

Grazie

di Giuseppe Di Giacomo

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Giuseppe Di Giacomo