

Il Cimitero della città verticale è davvero uno dei più belli al mondo, si trova in una zona panoramica, nel quartiere Liparlati, su un costone roccioso. Piu’ in alto si intravedono le frazioni di Montepertuso e di Nocelle, da cui ci si incammina per il sentiero degli Dei. Il luogo mistico è ora raggiungibile con un nuovo vettore meccanico, alto circa 60 metri, che parte dalla Strada Statale 163, seguendo la suggestiva via Stefan Andres su cui affacciano ville nobiliari ottocentesche caratterizzate dalle pregevoli architetture. L’inaugurazione del moderno impianto e del nuovo parcheggio auto a servizio di questo territorio incantevole è stato rimandato di una settimana causa il maltempo che ha interessato la costiera amalfitana lo scorso 18 maggio. Dal cimitero si ha un’ampia vista sull’intera costiera amalfitana, fino a riuscire a scorgere, l’isola Li Galli e piu’ lontano i faraglioni di Capri. Al centro dell’area sorge la piccola cappella Santa Croce, con volta a botte, dalle forme semplici, costruita nel 1852, anno in cui fu inaugurato il Cimitero. L’editto napoleonico di Saint Cloud del 1804, secondo cui i cimiteri dovevano essere costruiti fuori dai centri abitati, con la conseguente proibizione di continuare a seppellire i morti nelle chiese, fu applicato in questo luogo con distensione. Le tombe sembrano riprendere la conformazione dell’insediamento positanese, sono disposte su più terrazze intorno al costone e composte da piccole casette bianche, dal tetto a doppio spiovente o a cupola, sormontato da una croce e, spesso, ospitano al loro interno un intero nucleo familiare. Via Stefan Andres, che collega l’ascensore al cimitero, prende il nome dallo scrittore tedesco che visse a Positano, proprio nel quartiere Liparlati, insieme alla famiglia negli anni 1937-1949. Molte sono le sepolture di personaggi stranieri che hanno vissuto a Positano e hanno scelto di fermarsi. Positano, considerata la “Città rifugio”, nel tempo, ha accolto tutti coloro che perseguitati dai sovietici o dai nazisti, vennero in questo meraviglioso luogo di pace, e non se ne andarono, avendo salva la vita. Positano nelle sue “Terrazze di luce”, come descriveva il citato Stefan Andres, accoglieva tutti, senza distinzione di scelte religiose, sessuali, politiche, come d’altronde oggi.

Tra i personaggi più illustri si ricordano Essad Bey, scrittore originario dell’Azerbaijan, la cui deposizione è composta da una stele in marmo sormontata da un turbante, rivolta verso La Mecca, secondo il rito musulmano. E’ inciso sulla lapide, in caratteri arabi “In nome di Dio clemente e misericordioso Essad Bey 1905 – 1942”. Sono inoltre qui sepolti Michail Semenov, scrittore russo, insieme alla moglie Valeria Teja; Teodor Massine, padre di Léonide Massine celebre ballerino russo che abitò le isole Li Galli; Ivan Zagorujko, le cui pitture sono esposte al comune di Positano ed in importanti alberghi positanesi, sulla cui lapide è riportata la sua frase preferita: “Come è bello il mondo di Dio”; Mechthild Andres, figlia dello scrittore tedesco Stefan Andres, morta a nove anni, nel novembre del 1942 e tanti altri ancora come; Emilie Kariel, il filosofo-poeta Eduard Gilhausen, il pittore Bruno Marquart, i pittori creatori dell’art Work Shop Eduard Charlton ed Edna Louise, la pittrice musicista Wanda De Felicisi Del Castillo, il pittore Pignone del Carretto, poi Paula Barenfager, Roberto Scielzo, Bruck Bondi Ilse, Matilde Andrei, Josephine Scott, H.E. Amman, Habib Yazbeck, Lutcka Gluckmann, Kurt Cramer, Anna Cramer, Lidia Giseer Bachmann, Marie Luise Philips, Hedwij Riedel Vivaldi, Johnees Werres, Heinz Liehr, Zina Smolianova Hellstrom, Biserca Cecic, Helen Powers Nash sulla cui lapide c’è la scritta “GAY” ecc. Ritornando alla figura di Essad Bey, era uno scrittore famoso già prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Le sue biografie di Stalin e Maometto avevano avuto in Germania notevole popolarità. E anche i suoi saggi storico-politici sulla Russia e la Transcaucasia, scritti in uno stile romanzesco, avevano attirato i lettori dell’epoca. Secondo il racconto di Carlo Knigh, “Le incredibili disavventure dello scrittore azero che voleva diventare il biografo ufficiale di Mussolini e morì di stenti”, Essad Bey era nato a Baku il 21 ottobre 1905, da una ricca famiglia di petrolieri di origini ebraiche, emigrata nel Caucaso a fine Ottocento a causa dei “pogrom zaristi”, ossia delle sommosse sanguinose russe contro gli ebrei, considerati capri espiatori del malcontento popolare. Cresciuto con una governante tedesca, studiò nell’Imperiale Liceo Russo e più tardi all’Università di Berlino, divenendo presto un noto poliglotta e scrittore in lingua tedesca. Affascinato dalle rovine degli antichi palazzi dell’emiro di Baku, fu attratto dalla civiltà musulmana, e si convertì all’Islam nella sede dell’ambasciata turca di Berlino a soli 17 anni. Tuttavia, alcuni biografi hanno suggerito che la conversione fosse dovuta a motivi opportunistici. Lev (altro nome usato da Essad Bey) non solo abbracciò l’Islam, cambiò nome e si fece ritrarre col fez, ma si inventò letteralmente una nuova identità cui restò fedele sino alla fine. A Berlino, a New York, a Vienna e infine in Italia, diventò il principe turco musulmano Essad Bey che si propose, forte di solidi studi compiuti con non pochi sacrifici nella facoltà orientalistica di Berlino, come brillante esperto di cultura islamica, collaborando con successo e fama crescenti a numerose riviste letterarie e scientifiche della Germania di Weimar. Più tardi, quando nella Germania hitleriana la sua vera identità venne scoperta, Lev-Essad continuò a pubblicare sotto pseudonimo ancora in piena seconda guerra mondiale, e persino nel suo ultimo rifugio, l’Italia fascista, dove trovò autorevoli amicizie. Il suo ormai noto e puro anticomunismo funzionò, anche dopo l’approvazione delle leggi razziali, come una sorta di garanzia e salvacondotto: Lev-Essad, la cui origine ebraica dopo i dubbi iniziali era ormai ben nota alla polizia fascista, non fu mai imprigionato né rispedito in Germania, ma solo discretamente controllato, quindi progressivamente isolato e infine confinato a Positano dove, corroso dalla malattia, terminò i suoi giorni. Nella biografia di Lev-Essad viene riportato che i bolscevichi, conquistando Baku e l’Azerbaigian, determinarono la fine delle fortune del padre e la perdita di tutto. Padre e figlio cacciati da Baku, iniziarono la vita difficile dei profughi della rivoluzione. Approdarono prima a Istanbul, nell’ultimissimo periodo del califfato anteriore alla svolta repubblicana di Atatürk, poi a Berlino; quindi in America a seguito di un matrimonio, rivelatosi presto infelice, con la figlia di un ricco imprenditore americano. Subito dopo Lev-Essad tornò in Europa e arrivò a Vienna – ormai abbandonato dalla moglie – dove fu sorpreso dall’Anschluss, parola tedesca che significa “annessione” che si ebbe tra l’11 e il 13 marzo 1938, quando la Germania nazista annesse la confinante Austria e dove il padre fu più tardi catturato e deportato dai nazisti. Infine riparò in Italia dove si spense lentamente per una malattia inguaribile a Positano, a soli 37 anni. La tragedia nella tragedia fu però un’altra ancora: la madre, una rivoluzionaria bolscevica che Lev-Essad praticamente non nomina mai, era divenuta amica di quello Stalin che – ancor giovane agitatore comunista nel Caucaso – fu ospite a Baku della casa dei Nussimbaum per qualche mese. La madre in seguito morì in circostanze non chiare, ignote o tenute nascoste dai parenti anche al giovane Lev, sembra comunque suicida. Lev-Essad, autore fra l’altro di una corrosiva biografia di Stalin, scrisse: «Quell’uomo mi ha portato via la casa, la madre, tutto». Altri tuttavia sostengono che anche questa fosse un’invenzione: la vera madre di Lev sarebbe stata Alice Schulte, la “governante” che gli fu vicina fino alla morte e a cui egli lasciò tutto nel testamento autografo. Essad scelse Positano dove fuggire dalle leggi razziali della Germania alla fine del 1939, poco dopo l’invasione tedesca della Polonia. Dai rapporti di polizia risultava che era affetto dal morbo di Raynaud: un male che provocava la progressiva necrosi dei piedi. Perciò avevano dovuto amputargli le dita del piede sinistro. Le sofferenze erano insopportabili, attenuati soltanto con forti dosi di oppiacei. Il medico di Positano gli prescriveva la morfina, ma Essad Bey non poteva acquistarla per il suo stato di indigenza. Era divenuto povero a causa della guerra, a tal punto da non riuscire a sfamarsi. Sopravviveva grazie al cibo che la signora Maria Rispoli, proprietaria della «Buca di Bacco», gli forniva due volte al giorno. Knigh appurò, nelle sue ricerche, una proposta di lavoro risalente al giugno del 1942 dal Ministero della Cultura Popolare, un ministero del governo italiano con compiti riguardanti la cultura popolare e l’organizzazione della propaganda fascista. Essad Bey avrebbe dovuto effettuare una serie di trasmissioni radiofoniche di propaganda fascista in lingua francese e persiana, dirette alle popolazioni del Medio Oriente. L’offerta era però arrivata troppo tardi in quanto le condizioni di salute erano ormai precarie, infatti morì poco dopo. La vera identità di Essad Bey emerse solo nel 1971, quando apparve in America la traduzione inglese di un romanzo originariamente apparso a Vienna nel 1937, opera di uno sconosciuto Kurban Said. Il libro fu giudicato un capolavoro e il New York Times, deciso a svelare il mistero, lanciò un pubblico appello: «Chi ha scritto Ali e Nino?». Una prima risposta giunse da Vienna. La scrittrice Hertha Pauli chiarì che Kurban Said era il suo amico e collega Essad Bey, scomparso quasi trent’anni prima, il cui vero nome era Lev Nussimbaum. Ulteriori notizie erano poi pervenute da Alexander Brailow, il quale era stato compagno di liceo di Essad Bey alla scuola russa di Berlino. Brailow rivelò che i genitori di Lev erano ebrei russi provenienti dalla Bessarabia. Il padre di Lev si chiamava Abraham e aveva fatto fortuna a Baku, arricchendosi col commercio del petrolio. La madre, Bertha Slutzki, s’era suicidata nel 1911, quando Lev aveva sei anni. Lev era stato travolto dalla Rivoluzione d’Ottobre, e la sua gioventù era stata costellata di avventurose fughe e incredibili peripezie. Nel 1919, poco prima dell’invasione dell’Azerbaigian da parte dell’Armata Rossa, era scappato col padre a Costantinopoli. E nel 1922, dopo altri vagabondaggi, era approdato in Germania. A Berlino Lev aveva mutato religione. La cerimonia della sua conversione alla fede musulmana s’era svolta nella sede della rappresentanza diplomatica turca, alla presenza dell’Imam dell’ambasciata. E da quel momento, abbandonato il vecchio nome, aveva cambiato pure identità. Era diventato il signor Essad Bey, di nazionalità turca. Risalivano ugualmente a quel periodo le sue pretese ascendenze aristocratiche. Suo padre, secondo quanto raccontava in giro, sarebbe stato un nobile musulmano d’origini turco-persiane. Mentre sua madre, cristiana, sarebbe stata addirittura una principessa moscovita. Lo scrittore americano Tom Reiss ha dedicato a Essad Bey una biografia. Reiss ritiene tra l’altro che Nussimbaum si sia trasformato in Essad Bey per seguire «un’antica tradizione orientalista la quale, in maniera quasi surreale, univa Giudaismo e Islam». In altre parole, quel personaggio ambiguo, che a prima vista pareva un impostore, sarebbe stato invece un romantico visionario idealista. La tesi sembrò azzardata. Indubbiamente il cambio d’identità risultò utile a Essad Bey allorché, costretto a scappare dalla Germania, decise di nascondersi a Positano. In Italia le autorità finsero di credere che fosse realmente un cittadino turco. Nel 1937 Essad Bey espresse al filosofo Giovanni Gentile l’ambizione d’essere nominato «biografo ufficiale» di Mussolini. La proposta stava per essere accettata, al punto di aver ottenuto un colloquio con il Duce per ricevere il benestare a comporre una biografia, ma qualcuno mandò una lettera anonima a Mussolini, e tutto si bloccò. Essad Bey smentì le informazioni anonime, e scrisse nuovamente a Gentile, assicurando d’essere ariano da almeno tre generazioni. E affermò di poterlo dimostrare. Era infatti disposto a farsi esaminare da un antropologo di chiara fama, capace d’attestare in modo certo, su basi fisionomiche e metrico-scientifiche, la sua appartenenza alla razza ariana. Nell’introduzione alla sua biografia di Maometto (1939), Essad Bey continuava a elogiare il Fascismo («lo spirito geniale del Duce ha mostrato la via del nuovo avvenire»). E il 22 giugno 1942 (due mesi prima di morire), scrivendo a un’amica italotedesca, si dichiarava certo dell’imminente trionfo dell’Asse. Tale prospettiva lo rendeva felice: «Oh, la vittoria sarà davvero un’esperienza emozionante!». Era già successo nella vita di Essad Bey di dover vestire differenti maschere, come un personaggio pirandelliano. Come quando Lev Nussimbaum si convertì all’Islam semplicemente perché “si vergognava” di essere ebreo e voleva nascondere le origini dei genitori. Un comportamento biasimevole e, purtroppo, abbastanza diffuso. Era quello il motivo che l’aveva spinto a raccontare le prime non verità. Più tardi, quando rischiava d’essere arrestato dai nazisti ed era fuggito in Italia, aveva continuato a fingere per paura. Ma questa non può essere considerata una colpa. Anche lui, come ogni essere umano, aveva il diritto di fare l’impossibile per salvare la vita. “Non tutti nascono con la vocazione dell’eroe”, o meglio, Essad, come i suoi personaggi Ali e Nino aveva saputo risorgere piu’ volte come ci ha raccontato nel suo romanzo capolavoro “Ali e Nino, una storia d’amore”. Alla vigilia della Prima guerra mondiale, nella cosmopolita Baku – «la città europea più a est del mondo» –, il giovane azero musulmano Ali Khan Shirvanshir si innamorò di Nino Kipiani, una principessa georgiana cristiano-ortodossa. L’appassionante, delicata e talora fiabesca vicenda dei due giovani deve però fare i conti con l’irrompere della Storia: L’incrinarsi dell’impero degli zar portava con sé la rottura dell’equilibrio e della pacifica convivenza tra etnie e religioni. E a cascata, il risorgere di antichi tabù provocava laceranti, profonde incomprensioni, mentre il nascere di sentimenti nazionalisti suscitava conflitti, ai quali anche Ali avrebbe preso parte combattendo per l’indipendenza del suo popolo. Vero e proprio «classico moderno», “Ali e Nino” (il sottotitolo precisa: “Una storia d’amore riesce a non perdere mai la sua delicatezza di danza che unisce Occidente e Oriente, intrecciando modernità e radici profonde della cultura azera”. “Ali e Nino” è stato tradotto in più di trenta lingue e portato sul grande schermo nel 2016 dal regista britannico Asif Kapadia. È un inno alla forza dell’amore che supera le differenze, alla fusione tra Est e Ovest che non implica assimilazione ma sguardo reciproco gli uni sugli altri: «diversi eppure uguali» perché «nati sotto lo stesso cielo».
di Giuseppe Di Giacomo













